La vittoria della Sampdoria nel derby? Una questione di giustizia. Non poteva esserci altro risultato per la classifica blucerchiata…
Confesso di avere un rapporto complicato con la giustizia. Personalmente è forse il valore che vorrei vedere più di frequente applicato, in positivo. Impegno, fatica, umiltà, cose fatte bene, e soprattutto onore alla qualità, uguale equa ricompensa.
E, voglio precisare, parlo del contrario della cosiddetta “meritocrazia” di cui tanti si riempiono la bocca, e che nasce invece come idea negativa e profondamente ingiusta (e chi la usa, spesso a sproposito, non lo sa).
Devo quindi aggiungere che talmente amerei la giustizia da averne sempre fatto un po’ il centro dei miei tre romanzi. Conquiste che arrivano tra frustrazioni e fallimenti seguiti da ricostruzioni e gratificazioni.
A tutto questo e a tanto altro ho pensato nelle ore precedenti, concomitanti e successive al derby di sabato pomeriggio.
Al nostro essere diversi su tutto, dalla maglia all’ironia, dallo stile alla musica (sì, la musica, di ieri e di oggi), dall’obiettività pur partigiana a spalle larghe da subire da sempre offese e vessazioni di ogni natura, che a volte è solo nel calcio ma succede anche nelle cose percepite come serie. Al fatto che, di norma, a noi quasi mai è tornato qualcosa, e anzi attendiamo da anni restituzioni che ad altri sono spettate. Per giunta accusati di essere fortunati, paradigma semplicemente inaccettabile da chi ha visto perdere un importante trofeo internazionale a tre minuti dalla fine per una punizione invertita, un trofeo nazionale dopo una sequenza infinita e mai vista di rigori, una retrocessione decisa a tavolino e killerata dall’attuale capo degli arbitri. Potrei continuare ma non ne ho voglia. Non è da Doriani.
La parata di Audero nel derby: questa è giustizia!
Il derby è una questione di giustizia…
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A tutto questo ho pensato quando l’arbitro ha deciso di andare a vedere un’immagine sfuggita persino a chi ne avrebbe giovato. A tutto questo ho pensato quando un terzino di un’altra squadra si è presentato sul dischetto. A tutto questo ho pensato quando il mio portiere – il mio, il nostro – al quale giustamente non ho lesinato né critiche quando le meritava, né elogi quando li guadagnava (e più i secondi delle prime), glielo ha respinto lontano, in bello stile, agile come un gatto, ricacciando in gola il livoroso sfogo di chi non ce la fa, non ce la farà, non ce l’ha mai fatta, ma chiede come suo unico linimento che non ce la possa fare neanche tu.
A tutto questo ho pensato, quando qualcuno o qualcosa ha respinto per una volta altrove la palla dell’ingiustizia.
Poi domani succederanno altre cose, perché non è ancora finita, e come dicono gli allenatori del tempo moderno quando sono a pochi metri da un risultato, “non abbiamo ancora fatto niente”. Né per la matematica, e forse nemmeno per la geometria o la filosofia, per quei pochi che ancora la studiano.
Poi ne succederanno anche lontano dal campo, e chissà se avranno il “più” o il “meno” davanti. Forse saremo migliori o anche no. “Può passare il tempo, ma siamo sempre noi”, cantiamo da oltre trent’anni.
A tutto questo penso quando rifletto che, per una volta, la giustizia come piace a me è passata da Marassi, e si è fatta una grande pubblicità.
